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Faust, frammenti parte prima - 1989-90

autore: Johann Wolfgang Goethe
traduzione: Giorgio Strehler, Gilberto Tofano
regia: Giorgio Strehler
scene: Josef Svoboda
costumi: Luisa Spinatelli
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia del Faust parte prima

Appunti di regia del Progetto Faust, anno secondo. Ai 2500 versi rappresentati la stagione precedente se ne aggiungono altri 200. E il progetto di ricerca continua.

Continua il nostro lavoro di ricerca sul Faust di Goethe.    

Dal Programma di sala 1989/90    

La nostra volontà di presentarlo al pubblico nella sua interezza, non è mutata. Anzi, dopo le rappresentazioni dell'anno scorso, di fronte alla partecipe emozione di tanti spettatori e al sempre maggior interesse dell'Europa per la nostra fatica, abbiamo ancora di più la sensazione di adempiere ad un dovere culturale, in una società che ci appare sempre più disimpegnata.    

Proprio mentre il Teatro Italiano, al di fuori di rare eccezioni, sta dissolvendosi in avventure senza domani, noi al Teatro Studio e al Piccolo Teatro affrontiamo progetti vasti, proiettiamo nel futuro il nostro lavoro, con una fiducia ed una generosità che forse non è corrisposta sufficientemente da coloro che hanno la grave responsabilità istituzionale di assicurare una vita degna ad un Teatro Pubblico, una sicurezza per la fragilità del lavoro teatrale, un sostegno anche umano per coloro che lo svolgono come missione, assai più che come "mestiere". Ciononostante abbiamo rappresentato e rappresentiamo quest'anno Faust frammenti, parte prima. 2.500 versi circa, ai quali se ne aggiungono in questa edizione altri 200. Nel corso di questa stagione proveremo e rappresenteremo anche 2.600-2.800 versi della Parte Seconda.    

Così alla fine della stagione 1989/90 avremo recitato e rappresentato qualcosa come 6.000 versi dei 12.111 che costituiscono l'opera completa. Saremo a metà cammino.    

Considero già questa un'esaltante conquista ed uno straordinario evento che va al di là degli interrogativi estetici e critici, inevitabili davanti ad imprese di questo rilievo.    

E tutto ciò, mentre il nostro Teatro ha continuato a produrre, riproporre, rappresentare a Milano, in Italia e nel mondo, ogni sera, altro teatro da noi costruito. E mentre si stanno concludendo i primi tre anni della nostra Scuola per attori. Il Primo Corso "Jacques Copeau" produrrà una "esercitazione scenica" pubblica di Arlecchino servitore di due padroni. Uno dei manifesti della nostra storia, recitato da tutte le Allieve e gli Allievi, apparirà come la rappresentazione del "buongiorno alla vita del teatro" (dopo "l'edizione dell'Addio" nata nel 1987), ed in cui sarà presente un solo attore e maestro "professionista", Ferruccio Soleri, a segnare il legame tra il passato e un futuro che, in questo momento, mi riesce difficile intravedere nella sua realtà.    

E' possibile intanto trarre qualche conclusione dal nostro lavoro sul Faust parte prima, là dove si è detto - da qualche parte - che bisognava aspettare il "resto", per esprimere una fondata opinione critica sulla nostra fatica. Io penso che già fin d'ora si possa dire che esso si è svolto in un modo molto inconsueto per il teatro italiano e forse non solo italiano.    

Siamo partiti con una volontà progettuale, con alcune intuizioni - non certezze - con alcune conquiste, qualche immagine da verificare. Insomma, abbiamo cominciato con "una idea generale" per uno spettacolo, nato sul Faust di Goethe, ma non con la visione esatta di ciò che esso sarebbe diventato. Il luogo stesso, il Teatro Studio, chiedeva questa metodologia.    

Il Teatro Studio noi l'abbiamo fatto nascere per questo. Non perché esso diventasse un teatro come tanti altri. Il nostro pubblico sia paziente - e lo è -, non si fermi ad una "comodità" in più o in meno. In questo eccezionale, forse unico "luogo teatrale", con il suo legno, le sue semplici forme, la sua severità artigiana e la sua atmosfera poetica che continua a colpirmi, da più di tre anni stiamo creando non solo spettacoli teatrali ma anche, spero, un nuovo rapporto tra spettacolo e attori, tra attori e spettatore, tra la magia della finzione e la chiarezza dell'impegno critico, che purtuttavia non è mai gelido ed asettico o soltanto sapiente, ma è sempre un tentativo di comunicare, di esprimere idee e emozioni, di fare proposte, di avventurarsi in sentieri poco conosciuti. Con Faust frammenti, parte prima, abbiamo trovato anche una forma per rappresentarlo.    

Certo quella che abbiamo conquistato non può essere l'unica forma possibile. Altri, troveranno altri modi. Ma certo essa è plausibile, certo essa è evidente ed anche stilisticamente "nuova". Il Faust, fin d'ora, si presenta infatti come un grande Oratorio Drammatico in cui momenti di "spettacolo" si alternano a momenti di riflessione, di lettura - ora critica, ora emozionale - solitaria o a più voci. Un Oratorio Drammatico che percorre, sempre, le strade più difficili del testo. Non le evita, le affronta proponendo soluzioni testuali, letterarie, sonore e visive all'altezza della complessa poetica dell'opera di Goethe.    

Si continua a parlare tanto di "teatro della parola", di teatro "degli attori" della "riconquista dell'attore" e d'altro. Ebbene, a me sembra di scorgere nel nostro lavoro, non oggi diversamente da ieri, ma forse con maggiore incisività ed evidenza, questo amore per la parola teatrale, per la gloriosa solitudine del tutto responsabile dell'attore, non contrapposta però alla "teatralità", che non deve sempre reggere un evento teatrale, per quanto spoglio esso sia. Credo che questa forma tra teatro e meta-teatro sia una proposta molto stimolante, molto aperta e molto significativa per coloro che vogliono accostarsi al capolavoro goethiano e, forse, non solo a questo.    

Si tratta di una forma complessa di "rappresentazione", estremamente severa ma non frigida, di alcune delle pagine più alte della cultura europea, meglio universale. Di questa vorrei indicare al pubblico alcune realtà, alcune ragioni, sottolineare che le proposte-soluzioni della nostra amorosa indagine nel profondo del testo, cercano di rispettare sempre la densità estrema ed in un certo senso irraggiungibile, o raggiungibile solo per approssimazione, della Poesia di Goethe.    

Sottolineare l'abbandono - per esempio - di ogni "piccolo realismo teatrale" (gli oggetti, i mobili, le cose che si toccano e si vedono) per lasciarle quasi sempre all'immaginario del pubblico; quel pubblico che è capace nella sua fantasia, nell'attimo stesso della rappresentazione - se è legittima, poetica, rettamente condotta - di inventarsi il più straordinario teatro possibile, sulla trama delle parole, dei suoni, dei gesti e delle atmosfere che gli vengono proposte.    

L'estrema parsimonia delle "scene" (stanze, muri, porte, finestre e via dicendo) create da un poco di luce e dall'attore, e nei suoi rapporti gestuali con gli altri, in un certo spazio. L'uso del "costume" solo là dove ci pareva assolutamente necessario, per dare un "tempo" storico, una concretezza visiva, all'azione interiore. Sono, tutti questi, "gesti teatrali" espressi con molta decisione e senza ambiguità. C'è poco e moltissimo nel nostro semplice e spoglio teatro, c'è poco "spettacolo spettacolo" e purtuttavia mi sembra - e non è sembrato solo a me - che brilli sempre il lampo della teatralità lungo tutto l'arco della rappresentazione. Un lampo di teatralità che è, al tempo stesso, lampo di chiarezza e di scelta.    

Credo innanzitutto che il nostro spettacolo sia la dimostrazione inequivocabile della perennità, della modernità dunque, del testo di Goethe. Per noi appare sterile il dibattito sempre in atto nella sua pedantesca ricerca di fumosi "perché" e altrettanto fumose "ragioni", se il Faust sia rappresentabile o non rappresentabile, se vale la pena di rappresentarlo oggi, cioè se dice qualcosa "oggi". Insomma, se ci appartiene ancora. Credo che nessuno, uscendo da una qualsiasi delle nostre due serate, abbia avuto il sussulto del dubbio che ciò che aveva ascoltato, la grandezza concettuale ed emozionale, poesia e pensiero di ciò che aveva fatto suo per qualche ora, non costituisse un indiscutibile messaggio poetico e non toccasse i nodi dell'umano, di ciò per cui l'uomo è uomo, con tutti i suoi problemi, i suoi errori, le sue altezze ed i suoi mancamenti.    

Anche di questo dunque si può parlare e su questo si può riflettere. Poi esiste l'evidenza che il nostro lavoro, anche se di frammenti si tratta, affronta e non schiva temi-immagini-interpretazione dei molti difficili e complessi momenti del Faust. Né va mai dimenticato che la definizione da noi data di Faust frammenti, non deve esser intesa come riduttiva. Essa lo è solo per dichiarata onestà intellettuale. Persino la grande interpretazione del Faust, parte prima e seconda, di Gustaf Gründgens - cui ho avuto la ventura di assistere nel 1957, e che mi sono tenuto sempre accanto per amore e studio - che appare ancora oggi come la rappresentazione di "tutto" il Faust, in realtà ne rappresentava meno della metà.    

La nostra "rappresentazione" comunque, al di là di ogni problema quantitativo, cerca di dare suono, immagine e significato a parti e problemi di drammaturgia ed interpretazione che hanno costituito e costituiranno sempre il tormento di tutti coloro che vorranno affrontarli.    

Un esempio, tra i tanti, è l'immenso problema dello "Spirito della Terra". Si sono scritti libri su questo! Noi abbiamo tentato di risolvere in un modo coraggioso e complesso, con l'immagine dello schizzo apollineo disegnato da Goethe stesso, ingrandito e in movimento e con la voce di Will Quadflieg che dice i versi in lingua tedesca. Ma l'immagine di fiamma, l'immagine dello Spirito Cosmico che arde, chi potrà mai rendercela nella sua totalità?    

Certamente la nostra proposta è qualcosa di più di un trucco teatrale per rappresentare l'irrapresentabile. Così, è una scelta critica anche il "Prologo in Cielo", nella sua forma di immagine sacra, quasi in parte da "illustrazione popolare", e Mefistofele immerso in un magma acquatico primordiale, qualcosa dei primi Evi o prima degli Evi. E i suoni, la voce di un Dio invisibile, detto - secondo me - con suprema densità di accenti da Tino Carraro: paterno, antico, ironico, senza corpo e nello stesso tempo pieno di sfumature della parola.    

Ogni sera noi ci diciamo quando comincia il Faust con quel suo suono profondissimo, che si innesta sulle note così terrene e dolci di Schubert, che "adesso parte la nostra astronave metafisica!" Certo potrebbe anche essere altro, ma qualcosa che a Goethe appartiene c'è fin d'ora. Poi, più avanti, la "Festa di fuori porta", nel tramonto di un sole che pare interminabile. Il "cane nero-Mefistofele", altro tragico dramma per l'interprete, che abbiamo voluto prima astratto e poi reale. La concretezza di un barbone nero che riporta un bastone e sta nella nebbia che sale. Il dialogo-confronto tra Faust e Mefistofele che si incontrano, si scontrano, si fondono, si scambiano le parti, che appaiono come dei doppi reciproci di una sola figura. E' una proposta nata a poco a poco, in tentativi continui. Ma alla fine mi è parso che ogni spettatore ne sia stato come illuminato. L'iconoclastia della partenza di Faust in un pallone o Mongolfiera che dir si voglia. E' possibile? E' legittima?    

Il testo certo in qualche modo lo giustifica, quasi lo suggerisce più ancora del volo su un Mantello o Tappeto Magico da "Mille e una Notte"! Non so.    

Ma continuo a sentire un sublime tocco di ironia, tanto più tragica in quanto Faust per "questo" ha venduto la sua Anima; in quella sua partenza in preda a dubbi e a evidenti complessi di inferiorità è portato via da Mefistofele verso "il piccolo mondo", che si rivelerà davvero piccolo e degradato.    

E più avanti l'altra scelta - quella della "Cucina della Strega" - che Gründgens nel '57 faceva già muovere ai ritmi di carioca e rumba! - per indicare i salti nel tempo che, per me, sono una verità assoluta del Faust. La "Cucina della Strega", abbassata di livello quasi per indicarne la sua miserabile carnalità e permanente contemporaneità, è sostanzialmente un piccolo segno di omaggio e di gratitudine ad un Maestro del Teatro che tanto tempo prima di noi aveva avuto il coraggio di indicare una nuova possibile strada    

E così l'apparizione della Venere immensa. La Venere del Giorgione.    

Doveva essere invece l'immagine di Margherita? I critici, i germanisti, si sono dilaniati su questa interpretazione da sempre.    

Ho pensato che la Venere del Giorgione, nella sua immensità metafisica, potesse essere la più giusta. Ma gli interrogativi sono legittimi. E se fosse o potesse essere addirittura l'immagine di Elena, nonostante l'ultima battuta di Mefistofele? E così via, problema su problema, scelta su scelta: il confronto romantico tra Faust e Mefistofele nella tempesta che arriva; il "Duomo" costruito solo con qualche finestra di luce, una povera bara, il Dies Irae e lo Spirito del Male che impassibile trapassa il teatro-chiesa davanti agli occhi di una giovanissima e straziata Margherita; il viaggio, nella notte, di due cavalli metafisici ed infine il "Carcere". Là, una sola attrice, nel vuoto quasi assoluto, con un leggio, interpreta, legge, dice, svolge con stili diversi - da quello dell'immedesimazione di Stanislavskij a quello epico di Brecht - la partedi se stessa e quella di Faust.    

Un esercizio "drammatico-interpretativo" tra i più difficili che io conosca.    

La morte di Margherita. Il suggello con le voci di Faust (Dio) e Mefistofele, oggettive ed astratte.    

L'una la condanna l'altra la salva. Esse, tutte insieme, ed altre, possono dare alla fine l'impronta della poetica, umanissima ambiguità del Faust, della sua possibilità di lettura poliedrica e universale. Sono questi soltanto alcuni dei tanti "nodi" drammatici, testo, parola e teatro, che abbiamo affrontato con estrema umiltà, ma anche con coraggio e chiarezza per trovare, domani, altre metafore, immagini, suoni, più complessi. L'interpretazione totalizzante del Faust non avverrà mai. Forse non deve avvenire. Perché i capolavori dello Spirito debbono restare avvolti in un Mistero che non può essere svelato del tutto.    

Noi ci siamo immersi in questa profondità, l'abbiamo sondata e ve l'abbiamo consegnata, con tutto quello che noi siamo riusciti a far nostro. Alla fine dei conti questa "rappresentazione" ci mette tutti in uno stato di veglia, di allarme interiore. Noi attori e voi pubblico. Soprattutto ci rovescia addosso una valanga di poesia drammatica (il suo limite potrebbe essere, solo, la sua straordinaria densità) alla quale noi non siamo più usi.    

Chissà, se ne siamo ancora degni? Chissà se nel vuoto intellettuale che ci circonda, anche noi, fatalmente, non abbiamo già perduto qualcosa, per sempre? Comunque, noi abbiamo fatto Faust, una parte piccola ed enorme di Faust, per dimostrarci che non abbiamo perduto troppo. Che siamo ancora capaci, nonostante tutto, di misurarci con le cose grandi, di non tremare dinanzi all'abisso del buio, come dice Faust e, caso mai, di sentirci nello stesso tempo più piccoli e immensamente più grandi, dopo il confronto.    

Giorgio Strehler    

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